25 aprile, le radici operaie della Liberazione
Nel settantesimo anniversario della Liberazione vogliamo ricordarne uno dei momenti di genesi della Resistenza, le lotte operaie del marzo del 1943, quando, dopo quasi vent’anni di “silenzio”, alcune grandi fabbriche del nord – da Torino a Milano a Genova – ritornavano protagoniste della lotta politica, con lo sciopero. Fu il primo momento di resistenza di massa al fascismo, la prima volta in cui una componente essenziale della società italiana – gli operai – protestavano pubblicamente, dando un pesante colpo alla credibilità del regime, con lo strumento per loro più importante, più costoso, più difficile, quello che la dittatura aveva messo al bando: lo sciopero.
I lavoratori per vent’anni erano rimasti muti: cancellate le libertà sindacali e politiche, messi fuorilegge le organizzazioni del movimento operaio, costretti gli operai a “inquadrarsi” nei sindacati fascisti e nelle organizzazioni di massa che Mussolini aveva creato per controllare una classe che poteva costringere al silenzio ma di cui sapeva non potersi fidare. Durante il ventennio gli operai si trovarono a fare i conti con una condizione pesantemente peggiorata: i salari avevano perso potere d’acquisto, i ritmi di lavoro erano cresciuti, la soppressione dei sindacati aveva cancellato qualunque possibilità di contrasto della controparte e di contrattazione delle condizioni di lavoro. Gli operai erano scomparsi dalla scena politica del paese; insieme alla democrazia.
Con la guerra, i lavoratori dell’industria che si erano salvati dai massacri dei fronti di battaglia erano diventati il gruppo sociale su cui il conflitto pesava di più. Doppiamente penalizzati: come tutti gli altri italiani dal generale degrado delle condizioni di vita del paese (dai razionamenti alimentari ai bombardamenti), ma più degli altri su loro pesavano l’intensificazione dei ritmi di lavoro e il prolungamento degli orari per una produzione ormai tutta dedicata alla guerra. Così il malcontento iniziò ben presto a serpeggiare nelle fabbriche, dove sopravviveva la memoria delle rivendicazioni e dei conflitti sociali. La loro naturale distanza dal fascismo, con la guerra si trasformò in progressivo dissenso e nelle fabbriche si “sussurrava” sempre più spesso la parola proibita: “sciopero”. Ma era molto difficile organizzarlo, anche perché i militanti dei partiti antifascisti erano ormai una piccolissima minoranza.
Fu quella minoranza a preparare e accompagnare la gestazione degli scioperi del marzo 1943, dando a quelle proteste un respiro politico, collocando le rivendicazioni economiche nel quadro della guerra e sottolineando la necessità della pace. La gran parte dei loro compagni di lavoro erano giovani cresciuti sotto il fascismo, avevano pochissima o nessuna memoria, quasi ignoravano cosa fosse un sindacato o come si organizzasse uno sciopero. Ma con il peggiorare della proprio condizione di vita e con il protrarsi della guerra, la loro sensibilità sociale cresceva di giorno in giorno e quasi naturalmente si scoprivano antifascisti.
Gli scioperi del marzo ’43 furono prima di tutto una protesta sociale. I lavoratori chiedevano soprattutto aumenti salariali. Come controparte diretta avevano le imprese - tutte militarizzate e spesso controllate direttamente dalle milizie fasciste che stazionavano nelle officine – ma la decisione di scioperare per ottenere una serie di rivendicazioni (e non di chiederle come concessione) trasformò quelle richieste in un fatto immediatamente politico. Caratteristica che si accentuò nelle proteste successive, fino ai grandi scioperi della primavera del 1944 che furono chiaramente contro il fascismo e l’occupazione tedesca del nord Italia.
“Pane, pace e libertà” furono le parole d’ordine degli scioperi del ’43. Non ottennero molto dal punto di vista “sindacale” e dopo un mese di agitazioni si risolsero con delle mediazioni aziendali che accoglievano solo in parte le rivendicazioni dei lavoratori. Ma il loro impatto fu enorme e divennero una delle premesse della caduta del fascismo, il 25 luglio del 1943. Furono anche una grande scuola di antifascismo. Molti dei loro protagonisti sarebbero saliti in montagna con le brigate partigiane, altri avrebbero creato le strutture della resistenza nelle fabbriche e nelle città: organizzarono il sabotaggio della produzione militare, difesero i loro impianti dagli occupanti che volevano portali in Germania o farli saltare in aria, prepararono il 25 aprile. E nei giorni dell’insurrezione i primi luoghi a essere liberati furono proprio le grandi fabbriche. Molti pagarono duramente quelle loro scelte, furono deportati nei campi di concentramento e parecchi non fecero più ritorno. Tutti loro ci ricordano quanto siano preziosi i diritti e la libertà, quanto sia doloroso perderli e quanto sia costoso ma sempre necessario riconquistarli.
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